Editoriale a cura del Prof. Simone Mulargia, Delegato del Rettore per Lumsa ALUMNI Network

Granovetter: la forza dei legami deboli
Sono passati poco più di cinquant’anni da quando, nel 1973, Mark Granovetter utilizzò la famosa espressione La forza dei legami deboli. Il titolo dell’articolo del sociologo statunitense sintetizzava efficacemente una caratteristica significativa della struttura relazionale della società contemporanea, contraddistinta dalla presenza (maggiore che in passato e via via più significativa) di legami definiti appunto deboli. Legami differenti da quelli familiari, costruiti a partire da interazioni lasche, sia in termini di tempo che in termini di centralità simbolica, eppure capaci di giocare un ruolo decisivo nell’allargare l’orizzonte delle opportunità dei soggetti. Contatti, interazioni, convergenze su interessi specifici capaci di far da ponte tra gruppi di persone, regalando al soggetto la possibilità di estendere l’accesso a informazioni, risorse simboliche e occasioni. Senza la pretesa di una sostituzione, una sorta di emancipazione dai limiti imposti dai legami di nascita.
Come spesso accade, la forza di un’espressione va oltre gli intenti specifici del suo creatore. Granovetter intendeva offrire uno spunto per una riflessione teorico-metodologica sul rapporto tra il livello macro e micro dell’analisi sociologica. Eppure la forza dei legami deboli risuona ancora oggi come potente formula per descrivere la necessità di investire nella costruzione di questo tipo di relazione. Non stupisce che uno dei campi di applicazione delle osservazioni di Granovetter sia proprio la ricerca del lavoro. Più che basarsi sui legami familiari o su quelli amicali stretti, sarebbero proprio i legami deboli a offrire spunti e opportunità professionali ai soggetti.
Chiaramente, è bene ricordarlo, il ruolo di questi legami deboli non trascende le dimensioni strutturali che caratterizzano il posizionamento del soggetto all’interno della società. I legami deboli non cancellano le ineguaglianze e le posizioni subalterne né i privilegi dei gruppi sociali che dispongono di risorse materiali e simboliche date dalle loro rendite di posizione.
Eppure, a parità di condizioni, un network relazionale esteso (e ricco in legami deboli) è ancora oggi essenziale come risorsa capace di attivarsi per la risoluzione di problemi, lo stimolo al contatto con nuove idee e l’accesso a nuove e ulteriori possibilità di azione. A distanza di anni, quindi, il riferimento alla forza dei legami deboli può essere giocato come memento per l’importanza delle attività di networking.
La centralità del network
Gli anni Novanta hanno rappresentano una fruttuosa stagione di studi sul ruolo dei network di persone, nella straordinaria concomitanza dell’espansione di un tipo di tecnologia (il network di computer appunto) che nel breve volgere del decennio avrebbe significativamente mutato il panorama delle relazioni umane.
Il network è diventato così la parola chiave capace di sintetizzare il cambiamento in atto in quel periodo. Per certificare questa centralità, basti ricordare come Jan A.G.M. van Dijk e Manuel Castells - due giganti della riflessione sociologica circa il ruolo della tecnologia nella ridefinizione complessiva della struttura sociale – utilizzarono la stessa espressione, Network Society, per fotografare il mutamento.
Le tecnologie digitali, che in quel momento entravano nella quotidianità di quote crescenti di soggetti, fornivano un ancoraggio materiale ai legami deboli. Una piattaforma tecnologica capace di potenziare la creazione e la gestione di questi legami.
In termini più generali lo sviluppo delle tecnologie di rete influenzava, ed era a sua volta influenzato, da un ulteriore cambiamento della morfologia del legame sociale. Si osservava, infatti, in quegli anni uno spostamento di quote significative di interazioni dal face-to-face ai contesti mediati nell’ambito di una più generale erosione dei legami comunitari tradizionali.
Applicando alcune intuizioni della Scienza delle reti e della Social Network Analysis, si andava delineando il concetto di network individuale, modello di socialità in cui ogni persona costruisce e gestisce una propria rete di relazioni, basata su interessi, affinità e scopi personali, spesso con la mediazione significativa delle tecnologie di rete.
Questo nuovo assetto veniva definito nei termini di networked individualism, secondo la brillante definizione del compianto Barry Wellman. Un’immagine che cercava di tenere assieme la preminenza di un soggetto che, malgrado centrato su se stesso, fosse anche capace di aprirsi alla relazione con l’altro, beneficiando delle opportunità date dalle tecnologie digitali. Sulla scia di queste riflessioni, nel 2012 Lee Rainie and Barry Wellman pubblicano un libro intitolato Networked: The New Social Operating System.
Queste letture hanno avuto il merito di cogliere la complessità di un fenomeno davvero significativo, ben oltre la dimensione tecnologica. Non sono, però, esenti da critiche. Una delle più convincenti è che in diversi passaggi si osserva un certo ottimismo circa il ruolo che le tecnologie di rete avrebbero giocato nell’espansione del capitale sociale degli individui, dimenticando forse che gli usi più virtuosi della rete, capaci di rendere davvero concrete le potenzialità del network, erano (sono) appannaggio proprio di utenti già in possesso di quote abbondanti di quel capitale.
Quando ancora erano social network site
Sullo sfondo (forse neanche tanto) di questo interessante percorso di riflessione, emergeva una nuova famiglia di siti e applicazioni. Si tratta di quelli che inizialmente abbiamo chiamato (non a caso) siti per il social networking e che oggi sono diventati social media.
Questo tipo di piattaforme rappresentavano l’ultima evoluzione delle pratiche di utilizzo dei media digitali e una sorta di conseguenza della centralità dei legami deboli. Strumenti digitali capaci di formalizzare i network relazionali, consentendo forme inedite di management delle interazioni, con una spiccata predilezione per i legami deboli e debolissimi. I presupposti teorici e alcuni meccanismi di funzionamento che ancora oggi caratterizzano i social media risentono degli studi e del clima culturale e scientifico che abbiamo in questa sede sommariamente richiamato.
Negli ultimi anni, si è osservato una sorta di superamento della centralità delle attività di networking (espressione sempre meno usata) a favore di utilizzi che sono incentrati su un nuovo tipo di relazione: quella tra influencer e followers. Meno interesse per la costruzione del network e maggiore attenzione a forme di spettacolarizzazione delle relazioni, soprattutto da parte di specifici soggetti (gli influencer appunto) capaci di costruire e mantenere network molto estesi, in cui diminuisce lo scambio alla pari e aumenta la relazione (asimmetrica) di tipo leader-seguace o celebrity-fan.
Il network è passato di moda? Recuperiamo la dimensione umana del network
Alla luce del ragionamento sino a qui condotto, quasi sorprende come il dibattito pubblico attuale pare aver dimenticato la forza del network a favore della nuova parola d’ordine: intelligenza artificiale.
Malgrado questa osservazione incontrovertibile, il network rimane centrale per comprendere i contorni di questa nuova fase tecnologia che, con un po’ di retorica, chiamiamo la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. Senza entrare nei tecnicismi, è ormai di pubblico dominio come una delle chiavi del successo di questa famiglia di tecnologie sia stato lo sviluppo delle cosiddette reti neurali. Network di unità di calcolo capaci di lavorare in squadra per la risoluzione di problemi complessi, prima impossibili da gestire. Ancora una volta la forza del network, come forma organizzativa capace di mettere in campo performance migliori rispetto alla somma dei singoli elementi in rete. Non più la visibilità dei social media e dei siti per il networking, ma la profondità delle artificial neural network a segnare il ritmo di questo specifico passaggio d’epoca.
La centralità di attori comunicativi non umani è ormai al centro del dibattito scientifico contemporaneo e, qualunque sia il nostro giudizio, si tratta di un elemento che sembra destinato a perdurare nei prossimi anni. Se non possiamo combattere su questo fronte, possiamo però lavorare per la costruzione di network relazionali più estesi e ricchi di contenuti.
Da questo punto di vista, l’Università può giocare un ruolo non banale. L’esperienza universitaria, infatti, può rappresentare un’occasione di emancipazione dal network dei legami familiari e di quei rapporti costruiti solo sulla base della prossimità territoriale. L’Università, è bene ricordalo, non risolve la questione dell’emancipazione, perché agisce spesso su persone già in possesso di un significativo bagaglio di opportunità. Proprio per questo, ognuno di noi è chiamato a non sprecare tutte le potenzialità che vengono attivate dal nostro passaggio nel mondo universitario.
Occorre dunque uscire dall’ordinario e da una visione a sportello dell’Università, in cui l’impegno è esclusivamente finalizzato all’ottenimento del giusto numero di crediti nel giusto lasso di tempo.
È invece possibile mettere in atto (piccole) azioni straordinarie (di uscita cioè dall’ordinario) nella direzione di una coltivazione del network relazionale messo a dimora dalla frequentazione dell’Università e che aspetta solo di essere opportunamente coltivato.